La corsa è l’attività sportiva più naturale che un uomo possa praticare. Ma ne siamo proprio sicuri?

La corsa? Istintiva, sì. Ma, a volte, anche “portatrice” di infortuni: cosa succede al nostro corpo quando corre e qualche consiglio per ridurre i microtraumi.

Correre è istintivo. Semplice e facile, quando lo si fa per… non perdere il tram. Il discorso cambia e si fa più complesso se si sviluppano velocità oltre i 12 metri al secondo, ovvero 43 km orari circa.

Definiamo la… CORSA
La corsa è una consecuzione di passi in cui a momenti di appoggio singolo dei piedi a terra si succedono momenti di volo, che si ripetono in maniera uguale ma alternata.

È caratterizzata essenzialmente da una successione di contatti del piede con il terreno e già prima che il piede tocchi terra, i muscoli antigravitazionali che sorreggono lo scheletro, insieme a quelli della gamba, sono fortemente attivati.

Siamo palloni che rimbalzano al suolo
La meccanica della corsa può essere semplicemente spiegata come un pallone che rimbalza al suolo. Quando il pallone tocca terra, l’energia cinetica e quella potenziale raggiungono contemporaneamente un valore minimo. In questa fase una parte del lavoro meccanico negativo è accumulato sotto forma di energia elastica; esso viene restituito nel rimbalzo successivo come simultaneo aumento di energia.

I muscoli quindi dovranno spendere energia sia nella fase iniziale del passo, per compiere lavoro positivo, sia nella fase finale, per assorbire lavoro negativo. In questa seconda fase però, una parte del lavoro negativo si accumula negli elementi elastici dei muscoli in contrazione.

È possibile calcolare che senza la possibilità di recuperare energia elastica le massime velocità della corsa a piedi per atleti d’elite mondiale sarebbero circa 8,5 km/h nei 10.000 m, invece degli attuali 22 km/h; e di circa 13 km/h nei 200 m invece degli attuali 36,5 km/h (Atletica Studi, 1983, Di Prampero).

L’altra faccia della medaglia
Affermare che correre bene sia facile e che ci faccia (sempre) bene, comunque, non è così scontato. I runner di tutto il mondo, almeno una volta a stagione, accusano un problema che interessa articolazioni, tendini e schiena. E pensare che siamo “nati” podisti! Certo, per bisogno, ma comunque podisti: i nostri antenati dovevano correre per competere con gli altri predatori per l’approvvigionamento di cibo, e pure a piedi scalzi sfruttando così la capacità naturale che il corpo ha di ammortizzare ogni irregolarità del terreno.

Foto ©Dani Fiori

A piedi scalzi o con le scarpe?
A questo punto sorge spontanea una domanda: il gesto della corsa biomeccanicamente perfezionato per circa 2 milioni di anni a piedi nudi può essere svolto con la stessa efficacia pur avendo il piede parzialmente “bloccato” e che aderisce al terreno soltanto attraverso un’interfaccia (la calzatura)?

Oggi la corsa “naturale” (Barefoot) è considerata una forma estrema di corsa, se paragonata a quella tradizionale praticata con scarpe ammortizzate. In senso assoluto, è invece il punto di arrivo di un approccio che può e deve essere progressivo: è potenzialmente impensabile iniziare a correre a piedi nudi essendo abituati a farlo con scarpe da running, e di certo è impensabile farlo senza modificare prima l’impostazione della corsa.

Africani vs Resto del Mondo
La copertina della rivista Nature del gennaio 2010 è dedicata allo studio di Daniel E. Lieberman, docente presso il Department of Human Evolutionary Biology della Harvard University, Cambridge, Massachusetts, USA, dal titolo: “Foot strike patterns and collision forces in habitually barefoot versus shod runners” (Lieberman et All., 2010).

La ricerca si proponeva di rispondere alla seguente domanda: perché gli esseri umani erano in grado e possono ancora correre in modo confortevole senza le moderne calzature da running?

Gli studi sono stati condotti confrontando le caratteristiche dell’appoggio dei runner occidentali, abituati a calzare le convenzionali scarpe da corsa, con quelle dell’appoggio di giovani africani, nonché promettenti runner, che non hanno mai indossato calzature.

Dallo studio è emerso che i runner africani hanno un tipo di corsa che evita l’atterraggio sul tallone e che si caratterizza con l’appoggio a carico dell’avampiede o del medio piede. Questo tipo di appoggio non genera quel brusco impatto al suolo che si verifica invece quando il contatto avviene prima di tallone.

Pertanto, i runner con appoggio in avampiede o medio piede non hanno bisogno di calzature con elevata protezione sotto il tallone per ammortizzare le elevate forze di impatto tipiche dell’appoggio di retro piede. Se le forze di impatto possono contribuire a creare infortuni nei runner, una corretta tecnica di corsa con appoggio in avampiede o medio piede, con o senza scarpe, può essere efficace per tutti. 

Con l’appoggio di tallone sono “problemi” (senza la scarpa giusta).
E con quello d’avampiede…
Uno studio ha evidenziato come il 75% dei podisti che corrono con normali scarpe da running ha un erroneo appoggio di retro piede (Hasegawa et all., 2007).

Dal punto di vista dinamico l’appoggio di tallone genera in fase di contatto una forza di reazione del suolo che può essere da 1.5 a 3 volte il peso del corpo a seconda della velocità di corsa. La sua durata d’azione è di circa 50 millisecondi a partire dal contatto con il suolo. Questi “colpi” avvengono circa 600-700 volte quando si percorre un solo chilometro. Molte scarpe da corsa rendono l’impatto del tallone a terra meno traumatico, perché le loro capacità ammortizzanti riducono la forza di reazione del suolo anche oltre il 10% e la ridistribuiscono in un’area più ampia del piede. 

Queste scarpe di moderna concezione, molto ammortizzanti, inoltre, “perdonano” a runner e triatleti il sovrappeso o la tecnica errata. Ovviamente se, però, da un lato li aiutano a essere più attivi, dall’altra li portano a disimparare ad avere un appoggio del piede adeguato attivando tutti i pattern di movimento corretti.

La tecnica dell’appoggio d’avampiede, invece, provoca uno sviluppo più lento e progressivo della forza di reazione del suolo, che si sviluppa per circa 200 millisecondi. Persino sulle superfici più dure, come piattaforme in acciaio utilizzata negli esperimenti per la misura della forza, i runner che appoggiano in avampiede fanno registrare forze di reazione 7 volte inferiori ai “colleghi” che appoggiano di tallone e indossano scarpe ammortizzanti.

Recenti studi scientifici hanno inoltre dimostrato come la scarpa da running tradizionale può avere un effetto limitante sulla funzione della volta plantare, costringendo il podista a utilizzare il piede e la gamba in modo non corretto dal punto di vista funzionale (Morio, 2009). 

Quale la soluzione?
Pur sapendo che probabilmente la corsa effettuata a piedi nudi possa essere, nel breve periodo, meno impattante sul corpo, è inevitabile pensare che la nostra struttura difficilmente si abituerà a questo cambiamento. Oggi la soluzione arriva dalla tecnologia, da quegli strumenti nati per i podisti, che offrono innumerevoli dati.

L’analisi dei parametri di corsa
Quali di questi dati, se utilizzati nel modo migliore, possono essere “svolti” in modo semplice e nello stesso tempo influenzare (positivamente) il podista durante la corsa?

Sicuramente modificare la cadenza di corsa, ossia il numero di appoggi mantenendo inalterata la velocità di corsa, può essere il primo strumento e il più adatto a ridurre i traumi e migliorarne l’efficienza. Mentre si pedala o anche si nuota, si tengono presenti moltissimi parametri (rpm, potenza, tecnica, numero di bracciate o respirazioni ecc.); nella corsa, in passato, si è osservato un unico parametro: la velocità al km.

Foto ©Dani Fiori

La cadenza di corsa
Alcune aziende hanno effettuato ricerche su molti corridori di tutti i livelli. In generale, si è notato che i runner più esperti tendono ad avere una maggiore cadenza. Un obiettivo comune per la cadenza nella corsa è di avere circa 180 passi al minuto. Una cadenza maggiore corrisponde a una minore oscillazione verticale e a un minore tempo di contatto con il suolo.

I corridori più alti tendono in qualche modo ad avere una minore cadenza. Ovvio che tutto è anche condizionato dall’allenamento che si sta svolgendo, dal percorso dove si sta correndo e dalla gara che si sta disputando: correre una 10K porterà ad avere cadenze differenti, per via di una modificazione delle dinamiche di corsa e quindi del ritmo mantenuto, di quelle ottenute durante una maratona.

Come migliorare la cadenza
Per migliorare la cadenza di corsa l’unico modo è, soprattutto quando si affrontano corse facili o lunghi lenti, percorrere dei tratti modificando volutamente il ritmo di cadenza senza modificare il ritmo di corsa al km.

La modifica dovrà avvenire sia sopra ritmo, cioè arrivare anche sopra i 180 passi, ma anche sotto ritmo, ossia sotto i 150 passi.

Questo farà interiorizzare meglio la percezione della frequenza di appoggio, cosa che prima era monoritmo, imparando a modificarla a piacimento.

Solo dopo aver modificato in modo duraturo la frequenza sarà necessario aiutare questo processo con una serie di esercizi mirati al miglioramento della efficienza.

Già però aumentando il numero di appoggi, nel runner si noteranno alcuni cambiamenti:

  • l’uso maggiore del piede perché diminuendo l’apertura anteriore del passo l’atterraggio sarà più di mesopiede e meno “tallonato”;
  • il baricentro avrà meno oscillazione (oscillazioni verticali) e quindi avrà meno impatti;
  • il focus sarà orientato sulla efficacia della fase posteriore di corsa (gluteo, bicipite femorale e polpaccio);
  • i tempi di contatto al suolo diminueranno proprio perché effettuando più appoggi si starà più vicino a terra.

I corridori professionisti hanno spesso tempi di contatto con il suolo inferiori ai 200 ms. Praticamente tutti i corridori esperti hanno tempi di contatto con il suolo inferiori ai 300 ms. Tempi di contatto con il suolo minori si traducono in una maggiore cadenza e un passo superiore.

PER APPROFONDIRE L’ARGOMENTO

ResearchGate.Net
Biomeccanica della corsa con calzatura ginnica tradizionale e in barefoot

Studio dei parametri, delle loro interazioni ed utilizzi, sotto differenti condizioni di analisi, nei meccanismi del ciclo della corsa.
Tesi di Alessio Barbieri | Alma Mater Studiorum – Università di Bologna – Campus di Cesena – Scuola di Ingegneria e Architettura – Corso di laurea in Ingegneria Biomedica

Polar
Uso della cadenza di corsa nell’allenamento

RunLovers.it
La giusta frequenza

FisioRunning.net
I Campioni dicono 180! Migliorare la propria corsa e ridurre il rischio di infortunio

RunningZen.net
I parametri per valutare la corsa

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By Simone / Editor on Feb 11, 2019

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